L’apertura, come condivisione di conoscenza, lo scambio, come condizione vitale

Nel nostro modo di respirare riconosciamo la nostra prima, essenziale e vitale relazione di scambio.

Scambio e apertura verso l’esterno e dall’esterno verso il nostro interno.

In questa alternanza interno-esterno si crea quella corrispondenza reciproca che possiamo chiamare allargare lo spazio, non solo del volume d’aria dentro di noi, ma anche lo spazio vitale che riusciamo ad occupare senza essere necessitati dal bisogno di riempirci o di svuotarci, come sospesi in un’estensione continua e libera, che anticipa e segue la necessità del gesto respiratorio.

L’APERTURA, come disponibilità a farci attraversare dal respiro, è quindi una condizione di esistenza prima di essere poi una condizione di conoscenza, ma nel nostro modo di respirare conoscenza ed esistenza si connettono direttamente e reciprocamente ad ogni istante respiratorio.

Ma ogni relazione equilibrata contiene un cedere-prendere, ed è in questo SCAMBIO che possiamo di volta in volta esplorare e trovare la giusta misura.

La giusta misura diviene quindi l’orientamento stesso della ricerca e il modo dello scambio: questo è PRANAYAMA, questo cammino di conoscenza è la via del respiro.


dott. Carlo Robustelli

La libera scelta del SILENZIO

La libera scelta di stare in silenzio è il primo passo per porsi in ascolto, è la pre-condizione della MEDITAZIONE.

È un’estensione del fare: fare rumore, fare qualcosa, fare parola.

Una libera scelta è quella scelta priva di un fine prestabilito; il silenzio di cui stiamo parlando non è un tacere in vista di ottenere qualcosa, né un silenzio ricattatorio come fine della comunicazione, ma è un atteggiamento che non è mai definitivo, ma si mantiene e si regola attimo dopo attimo consapevolmente.

Il “QUI e ORA” di cui spesso si parla, che evoca la possibilità di una diversa presenza e di un diverso ascolto di sé, nella pratica parte da quel momento in cui scegliamo di smettere di sovrapporre rumore al rumore, nella speranza di cancellare quel disturbo di fondo che ci insegue sempre.

È questo il momento in cui decidiamo che possiamo rimanere col rumore dei nostri pensieri, ed è allora, solo allora, che possiamo finalmente lasciare emergere in noi il silenzio.

Ora il silenzio è un rumore che dilegua, che non è necessariamente un’assenza di per sé, ma qualcosa che comprende anche il rumore e ne partecipa armonizzandosi ad esso, come avviene nella pausa silenziosa della musica, nella punteggiatura, nel dialogo.

È lo spazio vuoto, la sospensione, ciò che determina principalmente il ritmo vitale, come lo definisce Platone: “…il ritmo è l’ordine dell’universo”, un ordine che comprende anche il vuoto, l’assenza, il silenzio.

Quel RITMO è il movimento che andiamo a cogliere e a produrre nella pratica, che parte sempre dall’ascolto del ritmo respiratorio nella sua costante dinamica; è la pulsazione interna del nostro battito alla quale adattiamo le nostre emozioni e allineiamo i nostri pensieri.

Ma il silenzio è anche il limite del dire, il limite del dicibile, del nominabile. È la porta per accedere all’abisso insondabile del Mistero dell’esistenza che emerge come da un mare invisibile, come la traccia di quello che era e la possibilità di quello che sarà.

Ci mettiamo seduti immobili senza parlare, ed ora mentre meditiamo si crea in noi uno spazio armonioso che possiamo occupare senza timore, in una quiete dinamica che ci pacifica e ci rinnova.

Adesso il silenzio non è più solo la condizione vuota di un’assenza, ma si trasforma nella pre-condizione di una presenza, presenza fatta di ascolto e di attenzione, che non separa selettivamente ma accoglie, che integra senza escludere ciò che sentiamo ci sta attraversando.

Quel rumore che dilegua, quel distinguere per riconoscere, e comprendere l’indistinto che sa qualcosa di ogni sua parte distintamente, lo possiamo chiamare MEDITAZIONE.

Allora meditare è sostare sulla soglia del silenzio, attraversando il limite, dove il limite diviene SOGLIA DI COSCIENZA da attraversare, per andare oltre.


dott. Carlo Robustelli

yoga&natura – conclusione

REALISMO PERCETTIVO

Quando parliamo di realismo percettivo, intendiamo un tipo di conoscenza che parte e pasa dalla corporeità risvegliata e ripulita percettivamente.

Conoscere in senso fisico-corporeo, senza dover CONSUMARE l’oggetto della nostra conoscenza;

CONOSCERE entrando in relazione col conosciuto – e in questo modo divenendo correlativo a ciò che conosciamo – integrandolo come una parte di noi stessi.

È questo un modo per sottrarsi al pericolo, già divenuto reale, di divenire SCHIAVI DEGLI OGGETTI, strumento degli strumenti, che dettano il ritmo della nostra esistenza, divenendone gradualmente delle protesi insostituibili.

Se conoscere è ricordare, come sosteneva Platone, allora ricordare è risvegliare un vissuto che non abbiamo consapevolizzato.

Conoscere allora è anche riconoscere, “…ed a un certo punto il mondo cambiò ai suoi occhi” dice Pantanjali in un passo degli yoga-sutra.

Conoscere è in un certo senso anche nascere insieme al conosciuto, riportando una bella osservazione di Raimon Panikkar.

Quando parliamo di realismo percettivo corporeo, dobbiamo considerare il corpo non come semplice oggetto della nostra conoscenza, ma una realtà concreta e vivente. Una realtà da cui non possiamo prescindere se non astraendocene, che riunisce in sé, come ORGANON, anche il Mistero dell’Invisibile che lo attraversa.

QUELLO CHE NON È ANCORA AVVENUTO

Abbiamo parlato in precedenza del passaggio dalla DESACRALIZZAZIONE DELLA NATURA alla sua OGGETTIVAZIONE: parliamo di quel processo storico che ha reso il mondo operabile dall’uomo e nello stesso tempo lo ha trasformato in oggetto; quello che non è avvenuto sino ad ora è il passaggio dalla DESACRALIZZAZIONE alla DIVINIZZAZIONE del creato.

Divinizzazione, come un accorgersi della presenza dell’ESSERE nel vivente, che è al contempo accorgersi della presenza vivente dell’essere sotto ogni forma, ma non collegato ad un’unica forma come nel realismo totemico primitivo.

Per il momento sembriamo esserci fermati alla COSALIZZAZIONE DELLA NATURA, ridotta a semplice oggetto dei desideri umani.

Siamo rimasti imbrigliati nel PENSIERO MAGICO, solamente trasformandolo nelle nostre mani attraverso la tecnologia, nello strumento della nostra onnipotenza.

Prendendo su noi stessi le sorti del mondo abbiamo pensato di renderlo migliore, ma ad un certo punto la superstizione è ritornata,

nella nostra dipendenza dagli oggetti della NOSTRA TECNOSCIENZA.

Ritorna il potere della cosa in quanto tale, allora veramente e pericolosamente, ricordando una citazione che amava ripetere l’amico Padre Camillo De Piaz,

“…se togliamo Dio dal mondo, allora ogni cosa può diventare Dio”.

Il Divino si distingue dal Sacro, proprio in quanto vede il sacro in ogni cosa come suo principio essenziale.

CONCLUSIONE

Se è vero che lo yoga unisce, unisce operando un cambio di visione del mondo, e questa è certamente una VISIONE ECO-SOFICA.

Ma è un modo di conoscere che va imparato e praticato per trovarne la giusta misura.

È il modo della natura che ci portiamo dentro, che quando emerge ci dice qualcosa su noi stessi e sul mondo.

Ed è solo nel trovare la nostra giusta misura che possiamo misurare ogni cosa.

Lo yoga è un filtro, un modo d’essere che possiamo sperimentare nella pratica e ci accompagna a casa.

Forse è arrivato il momento di rivedere la natura partendo dall’esplorazione della nostra vera natura: vera natura che va scoperta, custodita e protetta, così come il creato che ci sta intorno, in cui siamo immersi; che fa parte di noi come noi di questo, così da smettere di considerarlo solo come uno sfondo,

come una semplice scenografia dentro la quale agire da unici protagonisti.


dott. Carlo Robustelli

yoga&natura – parte II

Il passaggio dalla personalità alla creaturalità

Se osserviamo bene, in questa tutela della PERSONA, riemerge anche il valore fondamentale dell’essere umano, come essere sostanzialmente non solo capace, ma costituito dalle relazioni.

E allora un punto di vista diverso di osservazione potrebbe essere quello di integrare il formalismo giuridico con una visione qualitativa della relazione;

ma questo ritorno dell’aspetto qualitativo altro non è – a pensarci bene – che un modo diverso di percepire la relazione.

Personalmente ritengo illuminante in questo contesto l’originaria intuizione yogica, che il mondo è filtrato sempre dalla nostra dimensione sensibile e che da questa dipende quella che chiamiamo qualità del vissuto.

Da questo momento chiamerò REALISMO PERCETTIVO questo nuovo modo di conoscere a partire dalla nostra realtà fisico-corporea. Questa è essenzialmente la visione filosofica dello yoga, ma considerando questa come una pratica filosofica in cui deduciamo dall’aspetto esperienziale personale la nostra conoscenza, lontani da applicazioni teoriche che forzano e condizionano a priori l’esperienza. Del resto è proprio questa la difficoltà quando parliamo a qualcuno di un’esperienza che non ha ancora fatto: che linguaggio dobbiamo usare?

Il linguaggio metaforico è quello preferito dalla cultura orientale, ma alla nostra cultura forse si adatta meglio, ed è più preciso, il LINGUAGGIO SIMBOLICO, che unisce immagine e concetto.

Risvegliare la coscienza a partire dalla dimensione sensibile corporea, per accorgerci della realtà invisibile.

È bene ricordare che in quanto modalità d’essere, il corpo stesso è anche il risultato di una visione, ma questa non è più una rappresentazione: si trasforma e si adegua alla realtà qualitativamente percepita.

Il cammino della ricerca ad un certo punto coglie il RELIGIOSO, quando il percepire si affaccia al MISTERO.

E questo riconoscimento del Mistero come FONDO DELL’ESSERE, ci apre ed al contempo concilia con l’Alterità.

Questo distinguersi senza separarsi dall’Alterità, nella nostra tradizione cristiana ha preso il nome di CREATURALITÀ.

Come amava ripetere San Francesco d’Assisi, ogni essere vivente è CREATURA, anche il sasso e il lichene, anche se la sua evoluzione ai nostri occhi lo rende qualitativamente insignificante: nessuna creatura è insignificante. Questo è il sottile inganno che emerge dalla visione giuridica moderna del concetto di persona: essa viene attribuita o non, in base a criteri umani, per somiglianza o differenza, spesso privilegiando l’aspetto utilitaristico funzionale.

La creaturalità di ogni essere vivente consiste semplicemente nella sua UNICITÀ e IRRIPETIBILITÀ di creatura.

Proprio il contrario di quello che sono gli oggetti artificiali prodotti dall’uomo, UGUALI e RIPETIBILI.

Non sarebbe fuori luogo, a questo proposito, andarsi a rivedere il concetto marxiano di Alienazione, come quel momento in cui l’uomo nel processo produttivo dell’era della tecnica, non riconosce più nell’oggetto prodotto la traccia di sé stesso, tipica del manufatto, ed in questo modo perde un pezzo importante della sua umanità.

Una riflessione sulla tecnica dovrebbe ripartire da qui, dal fatto che personalità ed umanità sono inscindibili e ciò significa rivedere la nostra visione del mondo, per non ridurre la nostra esistenza a semplice FUNZIONE VITALE di produzione e di consumo.


dott. Carlo Robustelli

yoga&natura – parte I

Cominciamo col domandarci, cos’è la NATURA?
La natura è qualcosa di ORIGINARIO, ESSENZIALE, VERO, e il suo opposto è l’ARTIFICIALE, DERIVATO, VEROSIMILE.

Nello yoga ritroviamo l’aspetto naturale nel suo essere CONFORME alla dimensione originaria che sta dentro di noi e si riconosce nella realtà in cui essa è calata: il MONDO.
Il mondo che sta fuori e dentro di noi, così dentro come fuori, riconosciuto come QUALITÀ ESSENZIALE del nostro modo di vivere.

La relazione di cui parliamo è quella che ci permette di staccarci da una dimensione giudicante dominata dal mentale, per entrare in un rapporto diretto con le nostre esperienze.

Perché: conoscere la propria natura è conoscere la natura. Chi conosce sé stesso conosce il mondo. Non c’è separazione, ma c’è un abisso da attraversare. E l’abisso è comprendere che l’alterità è una parte di noi.

La conoscenza della natura non è mai data, e soprattutto, non è mai IMMEDIATA; la MEDIAZIONE è il nostro modo di conoscenza, e noi scopriamo nella pratica la differenza tra immediato e diretto, dove il primo è frutto della nostra rappresentazione della realtà e corrisponde al noto, mentre il secondo ha bisogno della nostra mediazione sensoriale percettiva e corrisponde al conosciuto.

Così come la percezione della natura è un processo storico culturale, anche la scoperta della nostra dimensione originaria è una compresione del passato attraverso la nostra visione presente.

Siamo naufragati dall’immobile antichità che vedeva nella natura l’INVIOLABILITÀ ASSOLUTA, passando attraverso l’idea romantica del SUBLIME NELLA NATURA, all’era della tecnica del MONDO COME OGGETTO UTILIZZABILE messo lì a disposizione dell’uomo.
Per l’occidente il processo prende avvio dalla DESACRALIZZAZIONE DELLA NATURA, che ha ridotto progressivamente il MONDO A COSA: COSA, e come tale liberamente operabile dall’azione umana;

e insieme è accaduto quasi senza renderecene conto che abbiamo ridotto anche l’essere umano a cosa.

Espellendo il concetto di IRRIDUCIBILITÀ DELLA NATURA, abbiamo contemporaneamente perso la nostra MISURA DELLA LIBERTÀ e ci siamo persi.

Nel PROCESSO DI OGGETTIFICAZIONE, appare così la figura del CORPO OGGETTO, come risultato di un visione meccanicistica-funzionale, che come tale non investe solo la sua dimensione estetica, ma si ritrova anche nella sfera etica, come mercificazione del corpo umano, e in quella medica della macchina corporea da aggiustare.

Sembra tuttavia resistere a questa idea dell’essere umano e della natura come COSA, il concetto illuministico di PERSONA, riabilitato e difeso dalle nostre democrazie moderne, come LIBERO CENTRO DELLE NOSTRE ATTIVITÀ RELAZIONALI. Attualmente si discute di riconoscere qualcosa del genere anche ad alcuni animali evoluti, secondo i nostri parametri, arrivando addirittura a parlare di persona-non umana, senza cogliere la contraddizione di questo termine, che del resto non è nulla a paragone della più comune REALTÀ VIRTUALE.

Francamente sembra angosciante dover tutelare l’essere umano il mondo animale e il mondo, solo in quanto esseri viventi ai quali sono stati riconosciuti dei diritti da alcune convenzioni umane: la gratuità della vita previene l’esistenza, ed è a dir poco pericoloso pensare che il diritto preceda l’esistenza, perchè anche se in apparenza questo non sembrerebbe, alla lunga quel diritto si trasformerebbe in concessione.


dott. Carlo Robustelli

Nel mondo occidentale, oggi, ciò che è “INUTILE” sembra essere diventato “INDISPENSABILE”

È interessante considerare in questo contesto l’inutile COME UN “SURROGA­TO” (nel suo valore di sostituto – non originale e degradato) del “GRATUITO”; il “GRATUITO” come atto libero di apertura al donare e al ricevere.

In una società in cui tutto è “merce” ed ha un prezzo, non si può più donare, si è condannati solo alla tirannia dell’utile;

ma forse la gratuità ritorna, anche se deformata grottescamente, e in modo quasi irriconoscibile, proprio nello spazio dell’inutile, feticcio di un desiderio di pos­sesso e di consumo, che appare come ultima illusione di appagamento e di con­quista, in una società in cui tutto è necessario. Oggi l’inutile in qualche modo ci viene proposto addirittura come “oltre” il necessario, come soglia qualitativa della libertà dei ricchi; quasi un passaggio di status sociale.

Ma l’inutile del consumismo giustifica e conserva la condizione originaria da cui proviene, che ne è traccia prevalente, anzi è strumentale a questa concezione utilitaristica;

allora l’unico modo per uscirne è la dimensione NON CALCOLANTE, oppor­tunistica, una dimensione anzitutto INNOCENTE, contemplativa della vita, che possiamo riconoscere nella pratica fisica e nella meditazione come ricerca della “GRATUITÀ DEL GESTO”. Gratuità del gesto, nella sua dimensione creativa, nella nostra dinamica espressiva, che va dalla parola al gesto, dal silenzio all’immobilità;

è qui, in questo spazio di sperimentazione, che possiamo riconoscere la traccia di libertà nel suo essere essenzialmente “DONO”;

il dono è la possibilità di accogliere in sé stessi il gratuito, l’inaspettato, come il non necessario, che non ci obbliga ma ci libera, paragonabile ad una gioia che trabocca, ad un “Nulla gravido d’essere” (Hegel).

Ma la libertà del dare presuppone dall’altra parte la disponibilità e l’umiltà nel ricevere. Alle volte infatti, il dono è più difficile accettarlo che farlo, perché ci sentiamo obbligati alla restituzione, non comprendendo che possiamo invece, in questo caso, uscire dalla logica debito-credito.

La gratitudine è il segno della comprensione del dono, che è sempre al di là e al di fuori del contratto, a cui non siamo obbligati perché il vero dono non chiede altro che di essere accolto. Ma la nostra capacità di ricevere parte sempre dal riconoscere la nostra origina­ria incompletezza, che non ci impedisce però di donare, dando testimonianza coraggiosamente della nostra fragilità che si trasforma in dignità nel portare il peso della propria condizione, trasfigurandola


dott. Carlo Robustelli

Sulla NON DUALITÀ come modo di riappropriarsi della corporeità consapevolmente

Se vogliamo veramente risolvere la contraddizione degli opposti, dobbiamo andare oltre la dialettica, e nella pratica yoga possiamo accorgerci di questa possibilità dentro l’orizzonte di un gesto fatto di un costante COGLIERE – OFFRIRE, in modo contemplativo, fuori da ogni dinamica funzionale e utilitaristica che tende a soddisfarsi nell’immediatezza che deve essere consumata. Attraverso lo yoga gettiamo uno sguardo innocente sulla realtà, dove la dialettica degli opposti, o per meglio dire, di quelli che ci rappresentiamo tali, si trasforma in DIALOGO. Anzitutto dialogo tra noi e noi stessi, dove scopriamo quell’alterità che ci portiamo dentro, ma non come un ALTRO estraneo e sconosciuto, ma come un TU che non abbiamo considerato abbastanza, a cui quasi sempre non diamo voce e spazio, perché non corrisponde al modello che ci portiamo dentro; quello stesso modello che tende a stabilire il nostro ordine dei valori. Un tu che inizialmente è principio di contraddizione, che appare irriducibile, ma che si risolve solo attraverso un cambio di visione, capace di cogliere la misura come cifra dell’armonia: la MISURA come relazione equilibrata degli opposti.

OPPOSTO quindi non significa necessariamente contrario, opposto è sostanzialmente una condizione spaziale, è ciò che distingue separa e delimita, ciò che ci resiste. Ma per conoscerci veramente non possiamo esimerci dall’avere a che fare con l’opposizione “…chi conosce sé stesso conosce il mondo” (M.Eckhart), ma per conoscere sé stessi è necessario aprirsi al mondo, quel mondo che è prima, oltre, e dentro il mondo come suo PRINCIPIO ESSENZIALE.


dott. Carlo Robustelli

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